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Come sarebbero le nostre case se non avessero finestre aperte sul mondo? Anche il posto più affascinante, senza contaminazioni esterne, finirebbe col diventare un luogo arido. La storia insegna che siamo esseri sociali e progrediamo nello scambio reciproco. Siamo fatti per condividere: cibi, idee, ideali, passioni. Spazi. Se c’è una parola che esprime meglio di altre il concetto di casa, che ci rende umani, esseri sociali per eccellenza, questa parola è senza dubbio condividere. Secondo il filosofo Emanuele Coccia, oggi non c’è più un “fuori casa” perché nel mondo in cui viviamo non esiste spazio che non possa dirsi domestico, che non ci riguardi da vicino. Le quattro pareti che chiamiamo casa non definiscono più confini misurabili e la vita che si svolge al loro interno è diventata “open”.

In questo senso, l’abitare del futuro somiglia sempre di più a un’intimità aperta e fluida, in cui gli spazi possono cambiare con la velocità e l’imprevedibilità del tempo atmosferico. La pandemia ci ha insegnato che i nostri coinquilini non sono più solo mariti, mogli e figli ma pinguini, foche, leoni, batteri e virus. E, allo stesso tempo, le nostre case sono una proiezione del nostro Io; chi le abita insieme con noi, chi accetta di far parte del nostro mondo, deve esser pronto a mescolare non solo abiti e suppellettili, ma anche la sua anima. Per questo, il gesto più intimo, la prova d’amore che andiamo cercando, è racchiusa in una semplice domanda, dolce e destabilizzante allo stesso tempo: mettiamo su casa insieme?

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